Ci sono forme d’arte che riescono a dare un nome ai processi interiori molto più di quanto riescano a fare le parole. La più grande artista sarda vivente si chiama Rosanna Rossi e in quella abilità è Maestra. Le sue opere hanno un rigore, pulizia, perfezione e misura in grado di suscitarmi un senso di equilibrio interiore salvifico. In lei vedo e vivo tutte le sette funzioni terapeutiche dell’arte secondo il decalogo di Alain De Botton: evoca memoria, suscita speranza, sublima il dolore, dona equilibrio, stimola la conoscenza di sé, produce un processo di crescita interiore e regala il sublime godimento della Bellezza.

Ho varcato il tempio della sua casa-studio e, seduta davanti a lei, ho assaporato ogni parola, respirando l’incalcolabile valore di trovarmi di fronte a una grande Donna.

Il morbido rigore di Rosanna Rossi, la più grande artista sarda

Ph Anna Marceddu

Il morbido rigore di Rosanna Rossi, la più grande artista sarda

Da La Donna Sarda – Intervista di Cristina Muntoni

 “Volevo fare come Rembrant, lavorare sui quadri per tempi lunghissimi”.

Rosanna Rossi, 78 anni di vita e 61 dalla sua prima mostra, è la più grande artista sarda vivente e della sua vocazione a non avere limiti temporali mi dà una dimostrazione tangibile. Nel suo studio a Cagliari – un luminoso open space circondato dagli alberi all’ultimo piano della villa anni ’70 in cui vive – mi mostra una delle sue grandi tele. Da lontano, sembra che il colore sia stato sfiorato da un pettine a denti stretti sino a formare delle onde. Movimenti fitti e sinuosi che percorrono tutta la tela. Ma da vicino si scopre che le centinaia di sottili linee parallele sono realizzate una ad una, in punta di pennello e svelano tutta la meticolosità di un lavoro preciso e incessante durato oltre un anno. Nonostante i tempi lunghissimi, la sua produzione è enorme. «Ho un accumulo di lavori che mi spaventa», racconta lei stessa.

 

Con le sue opere contemplative e astratte dal rigore geometrico ha segnato la storia dell’arte sin da quando ha partecipato da protagonista alla formazione di Studio 58. Il gruppo di artisti sardi segnò quella straordinaria stagione che, dal 1965 al 1975, ha visto Cagliari protagonista nel campo della ricerca e dell’arte in Italia.Vado a trovarla a casa, mentre i Musei Civici di Cagliari stanno rendendo omaggio alla sua opera con una mostra monografica (Percorsininterrotti) alla Galleria Comunale e alla Cava Arte Contemporanea. Si dice di lei che sia una persona dura, dall’approccio ruvido e intransigente. Mi accoglie invece una donna pacata, morbidamente accogliente e priva di qualunque barriera. Ha un corpo asciutto, occhi d’acqua dallo sguardo triste, parole e movimenti lenti e misurati di chi conosce il valore di ogni singolo gesto.

 

Perché dicono che lei sia dura? Non sembra.
Lo sono stata. Ero molto dura, ma la mia durezza non era indisponibilità, era logica e capacità di capire i problemi e, soprattutto quando insegnavo (al Liceo artistico di Cagliari e allo IED, n.d.r.), avere un rapporto preciso scandito da ruoli che dovevano essere rispettati. Dagli studenti ho avuto grandi soddisfazioni perché i miei allievi erano bravissimi e molte volte avrei voluto fare io quello che facevano loro. Ho imparato da loro. Però l’apparenza era quella della freddezza e della distanza. Poi col tempo maturavo altre forme di convivenza e di vita. Oggi forse sono più comprensiva, forse sono migliorata.Sua madre, descrivendo il suo lavoro artistico, diceva, lasciandola perplessa, che avesse una forza maschile. In cosa vede invece la sua forza femminile?
Per me era un’offesa perché non differenzio il lavoro tra maschile e femminile. I linguaggi non hanno una connotazione maschile o femminile, poi all’interno si possono anche scoprire delle convergenze tra due donne che lavorano con particolare attenzione verso le stesse cose, ad esempio la ricorrenza del filo che è reale in Maria Lai e virtuale in me. Però l’aspetto generale dell’opera, quello che dà impulso all’emozione o all’interesse, non è maschile o femminile, è l’opera. La forza femminile si vede semmai in tutte le manifestazioni quotidiane ed è la costanza, la perseveranza, forse perché devono combattere di più per essere presenti.

Però inizialmente si firmava R. Rossi, senza far trapelare se si trattasse di uomo o donna, per paura di genere.
Il genere femminile nella storia dell’arte ha poco conto. Ci portiamo dietro il complesso di Michelangelo: non esiste un Michelangelo femminile.

Più volte ha sottolineato l’importanza della sottrazione, la necessità artistica di togliere il superfluo. Cosa toglierebbe nella sua vita?
Nella mia vita il superfluo non c’è. Sono stata sempre morigerata nelle manifestazioni, tranne che nel lavoro e negli affetti per i miei familiari. Ho avuto sempre un senso del civile, del sociale, l’amore per i miei compagni di lavoro, l’ammirazione per quello che fanno. Anche persone non sono mai superflue, persino quelle che infastidiscono, perché fanno parte della vita.

Nella parte materica della sua mostra Percorsiniterrotti ha usato con ironia guanti da cucina, pagliette d’acciaio e spazzole come simbolo dell’essere donna. Cosa sceglierebbe per raccontare simbolicamente sé stessa?
Non ho un simbolo, ho il lavoro per raccontare me stessa. Un lavoro che pian piano si è andato amplificando ed è diventato sempre più importante ed esigente. L’idea di potersi raccontare in un’opera sola è un sogno, invece la vita è composta da tante giornate.

 

Lei è un’artista, ma è anche madre ed è stata moglie. Come è riuscita a conquistare il suo spazio creativo dentro una famiglia? Ha dovuto lottare per difenderlo?
Il mio spazio l’ho avuto con la pazienza e l’appoggio degli altri, la mia determinazione e la mia costanza. Non ho dovuto lottare, mi è stato riconosciuto in modo naturale, anzi quando ero fidanzata con quello che diventò mio marito, mi disse che riteneva che sarebbe stata un’offesa per lui se avessi smesso di lavorare. Aveva una grande sensibilità, era un uomo speciale. Ci sono state anche le necessità degli altri e altre impellenze che chiedevano di fermarsi, ma fanno parte della vita.Realizza grandi tele che suggeriscono l’assenza e l’annullamento di limiti, andando oltre i confini. Nella vita invece, quali sono i limiti che non riesce a superare?
È importante per me la non accettazione dei limiti di un quadro. Quello che ho fatto va oltre la cornice e la misura dell’opera stessa perché non hanno inizio e non hanno fine le linee e i colori che compongono il mio lavoro. Suggeriscono spazi altri, spazi diversi. La dimensione è venuta fuori dall’osservazione del lavoro degli altri come gli americani o gli italiani come Burri. Nella vita i limiti esistono, li contemplo e cerco di superarli. Ogni volta che intraprendo un lavoro, il problema è superare ciò che ho fatto precedentemente. Anche il cambiare tipo di lavoro fa parte di questa necessità di essere diversa e, nella diversità, superare il limite precedente.

Le sue opere rivelano un’acuta sensibilità di visione. Come vede il presente che attraversiamo?
Sono molto pessimista sulla realtà di oggi. C’è molta miseria, troppo bisogno.

Racconta che è stata la riflessione di un paziente dell’ospedale psichiatrico suo allievo a farla passare dal figurativo all’astrattismo con la frase “Che bisogno c’è di disegnare un albero se posso guardarlo dalla finestra?”. Cosa è stato invece a darle la consapevolezza di essere un’artista?
Io mi sono sempre sentita un’artista sin da bambina. Mi attendevo che gli altri lo riconoscessero, ma per quanto mi riguarda, io sentivo di essere nata per fare questo lavoro. Grande o piccola, conosciuta o sconosciuta, non aveva importanza: ero un’artista.

 

Qualche anno fa, l’artista tedesco Georg Baselitz in una celebre intervista a Der Spiegel dichiarò che le donne non hanno mai saputo dipingere perché non c’è mai stata nessuna Picasso, Gauguin o Modigliani. Affermazioni come questa sono alla base della cosiddetta “sindrome di Michelangelo”, ma ci sono artiste che la smantelleranno. Una di queste si chiama Rosanna Rossi.